Cosa sono le impronte digitali? Tutto quello che hai sempre voluto sapere | I Domandony
Da oltre un centinaio di anni
ogni storia del crimine che si rispetti a un certo punto parlerà di impronte
digitali che sveleranno il mistero o lo renderanno ancora più misterioso. Ma lo
spettatore medio cosa sa dei dermatoglifi? Nelle prossime righe proveremo a
capire tutto quello che c’è da sapere sulle impronte digitali, ma prima un’avvertenza:
non fidatevi dei koala! Mai!
Le evidenze ci dicono che le
impronte digitali sono usate da millenni e che la loro unicità individuale e
immutabilità sono riconosciute per lo meno da secoli. Ma prima di ripercorrerne la
storia, ci tocca domandarci come mai le abbiamo. Per rispondere a ciò, dobbiamo
fare riferimento alla stratificazione di quella che chiamiamo comunemente pelle
ma che in realtà è composta da tre livelli: epidermide (la parte superficiale),
derma (il condimento del panino) e ipoderma (lo strato inferiore). Nello
specifico, epidermide e derma sono strettamente legate grazie al tessuto
connettivo che permette il passaggio di sostanze e informazioni tra gli strati
ed è proprio questa disposizione del tessuto connettivo che va a formare in
superficie (epidermide) le cosiddette creste che assumono una precisa
disposizione papillare.
La formazione delle impronte si
conclude entro l’ottavo mese di gestazione ed essendo quindi un tratto
fenotipico (per semplificare diciamo “genetico”), questa non cambia nel tempo. In
altre parole, questo processo ci garantisce un’apparente unicità in cui “apparente”
significa che a livello puramente empirico non è mai stata trovata un’impronta
uguale a un’altra, ma non si può escludere che sia possibile. L’altra
caratteristica che emerge da questa breve spiegazione è l’immutabilità: infatti
anche se la pelle dovesse subire danni, semplicemente ricrescerebbe esattamente
allo stesso modo, seguendo cioè le stesse istruzioni di sempre proprio perché non
è una caratteristica superficiale, ma è scritta nella pietra. Giusto per
curiosità, si può nascere anche senza impronte: si tratta di adermatoglifia ed
è un fenomeno estremamente raro.
Come dicevamo, le impronte sono
ben conosciute praticamente da sempre e d'altronde come potrebbero non esserlo?
Sono letteralmente a portata di mano.
Le antiche popolazioni lasciavano
impronte un po’ ovunque, dalle tavolette di argilla ai sigilli, dal vasellame alle pitture parietali. Non possiamo dire con estrema certezza che sapessero
che fossero uniche per ogni persona, ma almeno dal 200 a.C. i babilonesi le
usavano come firma dei contratti, cosa che veniva fatta già mille anni prima in
Cina per la firma di atti e documenti governativi. Sempre i babilonesi ai tempi
di Hammurabi, ma anche i cinesi della dinastia Qin, prendevano le impronte dei
galeotti. Altre culture come quella indiana usavano le impronte per leggere il
passato e il presente e predire il futuro della gente, un po’ come una
chiaroveggente moderna farebbe con il palmo delle mani. Il primo riferimento all’individualità delle impronte
è probabilmente quello fatto dall’arabo Rashid-al-Din Hamadani che già nel
14esimo secolo parlava dei cinesi e del loro uso delle impronte digitali tramandando
che:
“l’esperienza mostra che due
individui non hanno dita simili”.
Secoli dopo, almeno dal 1500 in
poi, anche gli europei cominciarono ad interessarsi a queste strane creste. Uno
dei primi a studiare l’argomento in maniera scientifica è stato l’accademico
dell’Università di Bologna Marcello Malpighi che osservò le creste e le
particolari forme dei dermatoglifi; poco dopo, nel 1788, il tedesco Johann
Cristoph Andreas Mayer fu il primo europeo a concludere che le impronte
digitali erano uniche e individuali. Una cinquantina di anni più tardi Jan
Evangelista Purkyne classificò le impronte in nove categorie in base alle forme
che si ripetevano. Pochi decenni più tardi, durante l’investigazione di un sentito
caso di omicidio di un lord inglese, un medico suggerì di utilizzare le
impronte per risalire al colpevole. Negli anni ’70 dell’Ottocento a Calcutta vennero
anche usate come firma per i contratti così da evitare che i partecipanti
potessero disconoscerne la firma in un secondo momento. Ma il primo vero crimine
risolto con le impronte risale all’Argentina del 1892 quando Francisca Rojas
venne trovata ferita e i suoi due bambini morti. Dopo le accuse a un vicino di
casa, gli inquirenti analizzarono le impronte digitali scoprendo che la
colpevole era proprio Francisca Rojas.
Col tempo le tecniche di analisi sono
notevolmente migliorate e oggi il lavoro sporco è fatto dai computer che
riescono a identificare molto meglio e molto più velocemente di noi delle
differenze così minime. Nonostante sia ormai un luogo comune della fantasia
collettiva, l’uso delle impronte digitali è di tanto in tanto messo in
discussione e ogni sistema legale richiede specifici parametri stringenti per
accettarne la validità. Bisogna poi considerare che è tecnicamente possibile “impiantare”
impronte digitali altrui su una scena del crimine, cosa che può essere fatta
anche per ingannare i sistemi biometrici come un lettore di impronte.
Ed infine non è nemmeno da
escludere che il colpevole non sia il maggiordomo, ma un koala: questi marsupiali hanno infatti impronte digitali molto simili a quelle umane e
possono inquinare una scena del crimine.
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