Marco Gavio Apicio, ovvero: come la tavola è diventata un lusso da esibire | I Domandony
Vi ricordate di appena un paio di
anni fa quando sembrava che tutti fossero diventati appassionati di cucina
sulla scia dei mille programmi televisivi con chef stellati e incazzosi? Ecco,
diciamo che quel feticismo per i cuochi non è una novità moderna e che l’ossessione
per la tavola è molto antica. Oggi vediamo di come un certo Marco Gavio Apicio
abbia creato la mania per il ben mangiare.
Come al solito, prima di iniziare
dobbiamo fare alcune premesse. Quella che solitamente chiamiamo antica Roma è nel
concreto un’entità esistita in un arco di tempo lungo almeno mille anni, quindi
va da sé che ci sono stati molti cambiamenti durante questo periodo e la
cucina, facendo parte della cultura di un popolo, non è stata da meno. Dunque,
giusto per partire da delle basi comuni, possiamo dare delle vaghe indicazioni
applicabili all’Urbe.
Prima di tutto dobbiamo toglierci
dalla testa tutta quella storia dei banchetti infiniti, dei pasti sfarzosi, dei
triclini, della bulimia per ricominciare a mangiare, etc etc. Quelle cose
accadevano ma solo in una porzione piccolissima della popolazione dominante e
aristocratica: secondo lo storico Jerome Carcopino appena lo 0,2% dei romani poteva permettersi tali lussi. La gran parte della popolazione invece si
accontentava di cibo e costumi molto più basilari: tre pasti al giorno (quando
andava bene), molto frugali, cucinati nella culina (le cucine comuni delle
insulae romane, cioè gli appartamenti popolari e superaffollati), e consumati
solitamente seduti su una panca di legno. Il cibo principale era la polenta
ricavata da vari cereali e legumi (farro, miglio, orzo, etc; veniva chiamata polta);
a questa potevano essere associati ortaggi vari e, nel migliore dei casi, anche
pezzi di carne o pesce. Si consumavano poi formaggi e dal secondo secolo a.C.
anche il pane.
Era quindi una cucina a dir poco
semplice, ma come sempre Roma ha saputo assorbire le tradizioni altrui. Se di
proprio non aveva il culto del cibo, apprese il buongusto dai vicini dell’Etruria
e della Magna Grecia che avevano una profonda tradizione culinaria. Dagli
etruschi impararono il sapore della buona carne mentre dal sud Italia presero
la passione soprattutto per l’olio. Quando poi Roma si espanse per tutto il Mediterraneo,
rubò qua e là ingredienti e tradizioni.
Tutto questo però che ha a che
fare con il nostro Apicio? Senza questa enorme parentesi, non possiamo capire
il suo personaggio: ricchissimo uomo vissuto a cavallo tra il I secolo a.C e il
I secolo d.C, Marco Gavio Apicio è stato uno dei più grandi amanti del buon
cibo della storia. Sia chiaro, “buon cibo” si fa per dire: qualcuno vorrebbe
provare dei calli di dromedario o dei pappagallini in salsa? Sta di fatto che
ai suoi tempi, Apicio era un simbolo di opulenza ed è paragonabile ai
grandissimi chef che oggi abbiamo imparato a conoscere.
Di Apicio purtroppo non si sa
molto. Non sappiamo di chi fosse figlio né se il suo sia un vero cognomen: sembra
proprio che Apicio sia più un soprannome dato a personaggi famosi per lo sfarzo
dato che più o meno nello stesso periodo vissero altri due con lo stesso
cognomen. Sappiamo però qualche notizia sparsa arrivataci grazie a Marziale e a
Plinio il Vecchio: si sa ad esempio che fosse in buoni rapporti con l’imperatore
Tiberio e che abbia partecipato ad una delle famose cene a casa di Mecenate. Parimenti
fugace è poi il suo lascito più importante: il suo ricettario. Definirlo “ricettario”
è quasi un insulto poiché il suo “De re conquinaria” (L’arte culinaria) è un
manuale di cucina a 360 gradi: nei dieci libri non sono presenti solo ricette, ma veri e propri
consigli sia di cucina, che di vita, come comportarsi e come servire al meglio
il cibo, come riconoscere un prodotto buono da uno scarso, e così via. Purtroppo,
però ci sono pervenuti solo appunti sparsi e non troppo chiari, sebbene senza
alcun dubbio molti dei suoi piatti siano stati ripresi successivamente da altri
autori quali Viridario che si ispirò fortemente ad Apicio per scrivere il suo “Excerpta”.
Nonostante le lacune, una cosa è chiarissima: le salse e i condimenti erano fondamentali. Ad ogni livello
sociale i condimenti la facevano da padrone anche perché spesso dovevano
sopperire alle mancanze dell’ingrediente principale. La salsa più famosa e
versatile era il garum che si adattava ad ogni ceto sociale: i ricchi la
preparavano con pesci, aceto e spezie più raffinate mentre i meno abbienti si
accontentavano di una versione più modesta che prendeva il nome di liquamen. Come scarto
di lavorazione si estraeva poi una pasta ottenuta dalla pigiatura dei pesci e
delle frattaglie; l’allec, questa pasta simile a quella d’acciughe, veniva
solitamente spalmata abbondantemente sul pane dai cittadini più modesti.
Qualora l’importanza di Apicio
non fosse ancora chiara, consideriamo questo: egli è stato trai i primi a dare
inizio al culto della tavola e grazie alla descrizione dei suoi mirabolanti
piatti decisamente fuori dal comune già ai tempi, ha ispirato gli insensati
banchetti tardo medievali e soprattutto rinascimentali che col tempo si sono
evoluti fino ad arrivare ai giorni nostri; se oggi infatti l’ossessione per il
cibo sempre più strano ha forse un po’ perso appeal, grazie anche alla
globalizzazione che ha reso disponibile ogni tradizione culinaria in giro per
il mondo, è ancora attuale lo sfruttamento del ricevimento come manifestazione
della propria ricchezza, del proprio buongusto e del proprio modo di godersi la
vita.
E come potrebbe finire la vita di
un simile personaggio? Si racconta che Marco Gavio Apicio ci credesse così
tanto nella bella vita che quando si accorse di avere gli ultimi 10milioni di sesterzi
si suicidò per paura di non potersi più permettere il lusso che desiderava. Dieci
milioni erano davvero un sacco di soldi.
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