Il calendario babilonese e l'illusione della codificazione del tempo | I Domandony
In “Guida galattica per autostoppisti” Douglas Adams fa notare che il tempo è un’illusione e che l’ora di
pranzo è una doppia illusione. Ma sapete cos’altro lo è? Ogni tipo di
codificazione del tempo. Prendiamo per esempio l’inizio dell’anno fissato al primo
gennaio: una semplice formalità dovuta a due fattori. Un primo fattore fondamentale
è il ciclo della rivoluzione della Terra intorno al Sole; il secondo è invece
dovuto ad una decisione presa nel 153 a.C. quando gli antichi romani scelsero
che la festività dedicata al dio bifronte Giano fosse da dedicare all’istallazione
dei nuovi consoli che in quell’occasione venivano investiti del loro potere. Ecco,
questo è un calendario di tipo solare che segue cioè il movimento della nostra
stella, ma essendo un’illusione non è l’unica modalità per tener conto del
tempo. Oggi, quindi, ne vediamo uno di tutt’altra natura, quello babilonese.
Se il nostro calendario gregoriano ci appare vecchio con i suoi 438 anni, quello babilonese lo fa sembrare
un adolescente in preda agli ormoni con i suoi oltre 4mila anni (21esimo secolo
a.C). Le sue origini risalgono ad un precedente calendario sumero databile alla
Terza dinastia di Ur e a differenza del nostro, il calendario babilonese si
basa sul movimento della Luna. Questo significa che ogni mese è diviso in 29 o 30
giorni anche se, a ben vedere, nella sostanza quasi tutti i funzionari
adottavano il mese di trenta giorni, riconoscendone solo due di 29 giorni ogni
12 mesi (anno).
Il primo giorno partiva con il
novilunio e quindi la fine arrivava il giorno precedente l’arrivo del novilunio
successivo. Fino al quinto secolo a. C. il calendario in pratica veniva dedotto
grazie all’osservazione diretta e come sappiamo non sempre le condizioni
atmosferiche permettono la visione della Luna nel momento preciso in cui questa spunta;
questo avrebbe dunque dato vita a più di un errore di calcolo a cui a partire
dal 499 a.C. si cercò di porre rimedio creando una codificazione in cicli
lunisolari di 19 anni, quindi 235 mesi totali (come nel ciclo di Metone di Atene, il quale probabilmente trasse ispirazione proprio da questo modello).
Se pensiamo al calcolo della
Pasqua che cambia ogni anno, ci è subito lapalissiano quale sia il problema di
questo metodo: tener conto di date fisse era impossibile perché queste
sballavano di anno in anno. Infatti, molte festività avevano carattere
stagionale, come ad esempio quelle dedicate alla fioritura delle piante; ma se
il calendario non scandiva precisamente le stagioni, nell’arco di pochi anni
una festa dedicata alla primavera sarebbe caduta durante la raccolta. Facciamo un
esempio per chiarirci le idee: se prendiamo una media di 29,5 giorni al mese per 12 mesi l’anno, si
ottengono 354 giorni, quindi 11 giorni di differenza con il calendario solare;
in appena 3 anni questo significherebbe un errore di un mese e se quindi vogliamo
festeggiare un evento legato alla primavera, nell’arco di nove anni saremmo già
sforati nell’estate.
Per far fronte a questo problema
venne allora introdotto un tredicesimo mese intercalare (come il 29 febbraio
per intenderci). Sul quando inserire questo mese purtroppo è un mezzo casino:
di base si sceglieva di porlo alla fine dell’anno, ma alcune città preferivano
invece aggiungerlo dopo il primo mese. Ad ogni modo, il nome che si guadagnava
questo nuovo mese è in linea con i migliori sequel delle saghe
cinematografiche: si metteva un semplicissimo numero 2 dopo il nome del mese
precedente (per dire: gennaio 2 o dicembre 2). E ancora, altre forme prevedevano
anche un secondo mese intercalare che si comportava allo stesso modo ma finiva
per sballare nuovamente il conto, stavolta in eccesso. Nel 500 a.C. si decise quindi
di risolvere in maniera formale la questione inserendo sette anni intercalari
all’interno del ciclo di 19 anni di cui parlavamo prima. In questo caso, il
mese aggiuntivo veniva posizionato dopo il sesto o il dodicesimo mese.
Ok, i numeri brutti e cattivi ce
li siamo tolti. Ora passiamo ai nomi. Ogni mese aveva un nome proprio preceduto
dalla parola “Arah” che significa “mese” e veniva seguito da un’altra parola
che indicava un evento o un dio a cui il mese era dedicato. Questo ci riporta
alla questione degli intercalari: i nomi sono talvolta descrittivi, come nel
caso di “Arah Aru”, il secondo mese, che tradotto vuol dire “mese della
fioritura”; se però con lo slittamento dei giorni si finiva in pieno inverno,
la funzione stessa del calendario veniva meno. Detto questo, la maggior parte
dei mesi era in realtà dedicata a divinità o a figure mitiche della cultura
babilonese come Gilgamesh (potete approfondire il mito nel mio podcast) o Ishtar.
Tutti questi mesi erano poi a
loro volta raggruppati in tre stagioni composte da quattro mesi ciascuno, a cui
ovviamente va aggiunto il mese intercalare che però non fa parte delle suddette
stagioni. Qui di seguito una schematizzazione presa da Wikipedia (link nelle
fonti).
Oggi il calendario babilonese non
è più utilizzato in alcun paese, ma con le dovute modifiche ha fatto da base per
il calendario ebreo, per quello assiro e per quello di altre culture dell’odierno
Medioriente; non per nulla ancora oggi a livello etimologico i nomi originali
sono rintracciabili nelle lingue contemporanee, come nel caso di “shabattu” da
cui deriverebbe il termine ebraico “shabbat” e dunque il nome del nostro “sabato”.
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