Riportare in vita una lingua: la storia della rinascita del cuneiforme | I Domandony


Pasqua è appena passata e io sto ancora qui a parlare di resurrezione, ma devo chiedervelo: si possono riportare in vita i morti? Si, se si tratta di una lingua. Ovvero: la storia di come Rawlinson riscoprì il cuneiforme.

La scrittura cuneiforme è stata usata in varie zone del vicino oriente per ben 35 secoli, dal 3400 a.C. fino al primo secolo dopo Cristo, momento in cui venne completamente soppiantato dall’alfabeto latino. Il cuneiforme è un alfabeto che trae origine dai pittogrammi tipici della proto-scrittura mesopotamica che man mano, lungo il quarto millennio a.C., andò semplificandosi fino a ridursi a simbolini appuntiti. Dopo la caduta dell’impero persiano, per quasi duemila anni non se ne seppe più nulla, non rimaneva più nessuno che sapesse leggere quella grafia, tanto meno qualcuno che la sapesse usare per scrivere. Finché, a metà del 1800, un ufficiale dell’esercito britannico non ci si dedicò. Era di stanza in Persia, odierno Iran, per organizzare e addestrare all’europea le truppe locali per conto della corona inglese. Come ogni ufficiale britannico, Henry Rawlinson doveva studiare e capire al meglio la cultura locale, le varie lingue del territorio, le tradizioni, doveva conoscere i popoli meglio di quanto loro stessi si conoscevano. Letteralmente: spesso i colonialisti, e quello che segue sarà un esempio, spinti dalla fame di sapere studiavano la storia dei popoli dominati in maniera sistematica e scientifica riscoprendo stralci di un passato che i locali neanche immaginavano. Un esempio è il caso della famosa stele di Rosetta che, come vedremo, ha molto in comune con le iscrizioni di Bisotun.

Nella provincia di Kermanshah (Iran), su una delle facce del monte Behistun, da oltre 2500 anni sono visibili delle iscrizioni che risalgono all’impero di Dario I e occupano la bellezza di 116 ettari. Venticinque secoli che non sono passati inosservati. Già il greco Ctesia di Cnido nel 400 a.C. ne parlò sostenendo che si trattasse di una dedica a Zeus (o al suo analogo zoroastriano Ahura Mazda). Tacito invece ci parla di alcuni elementi ausiliari che stavano lì intorno, come un altare dedicato ad Ercole che sarebbe andato perduto. Ibn Hawqal, viaggiatore arabo, a metà del 900 d.C. invece pensava che quelle incisioni rappresentassero un’insegnante e il suo allievo. Quasi settecento anni dopo, 1598, l’inglese Robert Shirley invece gli attribuì un valore cristiano sostenendo fosse una raffigurazione dell’ascensione di Cristo. Ancora due secoli più tardi il francese Gardanne ci vedeva Gesù e gli apostoli.

Ovviamente nessuno ci aveva capito poi molto.

A questo punto entra in gioco Rawlinson. Le iscrizioni erano situate in un posto particolarmente scomodo, difficile da raggiungere e pericoloso. Nonostante questo, con l’aiuto di alcuni locali, l’ufficiale inglese riuscì a trascrivere quei disegni e cominciò a farli circolare in Europa sperando che qualcuno prima o poi ci capisse qualcosa. Lo stesso Rawlinson non perse tempo e ci lavorò alacremente in ogni momento libero. Ma come potevano farlo se era una lingua sconosciuta? L’abbiamo più o meno già detto tra le righe: come la stele di Rosetta, anche le iscrizioni di Bisotun presentavano tre testi cuneiformi in tre lingue diverse: antico persiano, elamitico e babilonese.

Il persiano era in parte già stato decifrato da Georg Friedrich Grotefend e proprio dai suoi studi Rawlinson partì scoprendo che all’inizio del testo venivano riportati i nomi dei re persiani precedentemente tradotti dal tedesco. Inoltre, era la stessa lista che aveva riportato anche Erodoto in una versione in greco. Combinando queste conoscenze, l’inglese riuscì quindi ad attribuire il giusto significato ai simboli, partendo dall’antico persiano che in parte assomigliava a quello moderno. In appena una ventina d’anni, Rawlinson e co. riuscirono a decifrare il testo ed entro il 1857 il cuneiforme non riservava più particolari segreti.

Ma quindi alla fine di che si parlava? Niente Gesù o Zeus, ma una biografia di Dario I, grande conquistatore e re persiano forse ingiustamente bistrattato dalla storiografia grazie alla (o per colpa della) tradizione occidentale (leggasi: greca) che descriveva i persiani come invasori (lo erano, ma gli ellenici non erano da meno). L’uso delle tre lingue è poi giustificato all’interno delle iscrizioni in un passaggio in cui viene specificato che tale testo era stato inviato in giro per l’impero in modo che tutti lo potessero comprendere. Allo stesso scopo venne quindi riportato anche sulla parete del monte.

Nacque così l’assiriologia che permise di far resuscitare una lingua morta da quasi duemila anni. A Rawlinson seguirono numerose spedizioni fino all’inizio del 1900, con fotografi e archeologi di tutto il mondo che cercavano di decifrare anche le parti mancanti e logorate dal tempo. E se il tempo non è stato clemente, nemmeno la seconda guerra mondiale lo fu dato che la parete venne usata come bersaglio d’allenamento dai soldati. Fortunatamente dal 2006 è patrimonio dell’umanità.

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