Sette Anni in Tibet (1997) - Le Recensiony
Se dovessi paragonarlo ad una giornata, questo film sarebbe una di quelle che si prospettano interessanti, tipo il natale, ma poi è come molte altre. Forse anche più lunga.
Proprio come il film, fin troppo prolisso, sconnesso nelle sue parti, ed eccessivamente osannato dal pubblico.
Ma andiamo per gradi ed iniziamo a scalare questa montagna. Divertente, eh? Non molto visto che ancora non sapete di che parla. Si inizia bene.
Heinrich Harrer è un alpinista austriaco nazista che fin da subito fa notare quanto lui non sia social-nazionalista. Discute con la moglie incinta mentre si dirige in stazione dove viene accolto come l'eroe che tenterà, dopo quattro fallimenti di altrettante spedizioni, di scalare il Nanga Parbat, la nona vetta più alta al mondo. Inizia dunque il viaggio verso il Tibet contro la volontà della moglie, ma con la voglia di Heinrich di fuggire da quella vita che gli si era parata davanti.
Fin dai primi giorni si manifestano le difficoltà della missione e in questo frangente ci viene presentato Peter Aufschnaiter il capo della spedizione, a cui salverà la vita durante un'arrampicata. Fermi per le valanghe, i pensieri continuano a turbare il protagonista che comincia a porsi dei quesiti sull'intera operazione.
Nel frattempo la Germania pensa bene di invadere la Polonia, l'Inghilterra dichiara guerra a nonno Hitler e la squadra viene arrestata da un manipolo britannico e quindi condotta in un campo di prigionia.
In tutto questo il nostro scalatore dimostra di essere spocchioso, di sentirsi superiore e continua a pensare di poter far tutto da solo.
Passano circa due anni e la moglie, ormai sola da tempo, chiede il divorzio. Questo inasprirà ancora di più il carattere di Heinrich che tenterà più volte di fuggire, senza successo, nonostante i suoi compagni stessero programmando un piano ben più elaborato che egli continuava a snobbare.
Passano altri due anni e finalmente questo piano, a cui infine parteciperà anche lui, viene messo in atto ed appena fuori, si dividono le strade.
La narrazione è intanto intervallata dalle immagini di un bambino dal grande futuro che man mano, di scena in scena, cresce e manifesta la sua curiosità per l'esterno.
Solo e vomitante, dopo centinaia, se non migliaia, di chilometri, Heinrich rincontra il suo compagno Peter, che per qualche motivo, nonostante il caratteraccio e nessun legame d'amicizia, lo aiuta per tutto il tempo. Dunque insieme si rimettono in cammino verso il Tibet, coglionano (termine tecnico per esprimere quel che succede, perché sul serio.. è al limite del ridicolo) le guardie che nel frattanto li avevano catturati e si ritrovano sperduti nei dintorni del Tibet e in qualche modo riescono a raggiungere la città santa e proibita di Lhasa dove risiedono i monaci e il Dalai Lama in persona.
Qui il film sembra decidere di cambiare genere, da picaresco passiamo al romantico, poi al fiabesco (nel rapporto fra due personaggi) e poi anche al bellico, come fossero parti completamente diverse; si sofferma inoltre a riflettere continuamente sulla solitudine e sul quanto da soli valiamo poco; emblematica la scena in cui Heinrich si rende conto di non potercela fare in solitaria. In un certo modo, i campi lunghissimi e le panoramiche dell'ambiente montano, marcano ancora di più questo senso di effimerità e di pochezza degli individui.
Un po' dal nulla ripensa a suo figlio e viene convinto da Peter a scrivergli.
Affamati e distrutti dai giorni e giorni di cammino, si gettano sulla ciotola di un cane e vengono sorpresi dall'anziana padrona ma il facoltoso figlio arriva giusto in tempo per offrirgli un tetto.
Qui si apre la seconda parte in cui vengono sottolineate le differenze fra le due civiltà, quella occidentale e quella orientale, parte la sfida amorosa fra i due protagonisti per la conquista della sarta e vengo inoltre accettati in quella città in cui gli stranieri non erano ben visti, a causa di una previsione del tredicesimo Dalai Lama.
Nonostante ciò, Heinrich vuole ancora tornare a casa, fin quando una certa risposta non gli fa cambiare idea e conferma che quella che chiamava casa non ha più nulla da offrirgli.
Entrato in contatto con il monaco, stringe velocemente una forte amicizia con lui, a cui insegna i costumi e il mondo occidentale e nel frattempo apprende quelli orientali; ma questa situazione pacifica viene ben presto interrotta dalla storia che si palesa sotto forma di premonizione nei sogni di Tenzin. Si avvicina la minaccia cinese.
Incredibilmente, un austriaco qualsiasi, entrato a far parte di una società che non accettava stranieri, riesce a diventare il centro del mondo, in qualunque ambito di quella società.
Iniziano i preparativi per difendersi contro il nemico e parte il pippone (altro termine tecnico) buonista e pacifista.
Nel frattempo si ripresenta la mancanza del figlio che a quanto pare si rivela essere fondamentale nella sua storia nonostante sia stata appena accennata due volte in tutto il film e comporta un altro spiegone stile cartone.
Grazie all'aiuto dall'interno, la Cina riesce a sconfiggere le forze armate (alla buona), il Dalai Lama ha finalmente pieni poteri politici ed è però costretto alla fuga.
Heinrich torna in Austria e…
Titoli di coda, con ennesimo spiegone, e finalmente fine dopo 128 minuti.
Che dire? Mha, non capisco come possa essere considerato un film profondo quando l'unico pregio è quello di avere la colonna sonora di John Williams e l'incredibilità di quel che succede. Non incredibilità nel senso positivo di stupefacente, ma in quello negativo di non-credibile, privo di collegamenti logici tra le parti e quasi fa ridere come certe cose accadano senza un preciso motivo. O perché certi comportamenti sono tali, quasi in maniera macchiettistica (lo stesso protagonista sembra stronzo per il gusto di essere stronzo). Ma forse proprio questa incredulità spinge, ed è qui il pregio, ad approfondire quei fatti e quindi in fin dei conti, nella sua interezza, istiga ad interessarsi a quegli accadimenti che da così lontano l'occidente ha sempre superficialmente affrontato e conosciuto, e ci porta più vicino facendoci immedesimare in un occidentale interpretato male (da quel che dicono) da Brad Pitt che si trova a dover scoprire, capire ed interiorizzare quel mondo considerato così lontano, primitivo ma nonostante questo pacifico. Infine si vuol far passare il protagonista per troppo buono, a cominciare dal rinnegare la sua appartenenza alle SS fino al pentimento dell'abbandono della moglie e del figlio. Fortunatamente si discosta dall'autobiografia da cui è tratto, ma in quanto autobiografia, conferma quantomeno la sua versione in questa storia così fuori dal comune e quindi le conferisce un senso di veridicità che riesce a rafforzare l'intera storia.
Come per il "Siddharta" di Hermann Hesse, che per lo meno ha il pregio della bellezza nonostante non sia storicamente molto accurato, ha il fine di avvicinarci ad un popolo distante, ma comunque umano.
Ps: e non fatemi iniziare a parlare dei capelli di Brad Pitt. Eccheccos'è?!
Pps: il regista è Jean-Jacques Annaud, lo stesso che l'anno scorso ha fatto uscire "L'ultimo lupo" ben più interessante e fatto meglio.
Sette Anni in Tibet (1997) - Le Recensiony
Reviewed by Antonio Emmanuello
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