Indie #20 | Rassegna di Cinema Indipendente | Capitolo III - Le Recensiony
Terzo
appuntamento con #indie20 e non ci si rassegna
mai alla mediocrità, anzi si punta sempre all’indie-menticabile.
Vincitore
a Berlino, nominato al David di Donatello, ha fatto parlare molto di sé tanto
da portare la serata al sold-out. Un sold-out che è tanto una vittoria
dell’organizzazione, quanto un segno di un’apertura verso una tematica che sta
tornando sempre più sulle prime pagine di giornali e telegiornali.
Se
dovessi paragonarlo ad una giornata, questo film sarebbe una di quelle passate
in coda allo sportello dell’accettazione di un ospedale, una fila lunga per poi
scoprire che non stai come pensavi.
Proprio
come “Fuocoammare” che ci accompagna lentamente, con i tempi non tipici dei
film, ma quelli effettivi della vita, a riflettere in modo umano sulla
questione dei migranti e ci fa rendere conto che le cose non sono come ci si
aspetta, o come qualcuno ce le descrive. Si parla di esseri umani, solo e
semplicemente di questo. Si parla della tragedia, della vita di tutti i giorni
degli isolani, si parla metaforicamente dell’occhio pigro del mondo. Difatti in
un certo modo Rosi, il regista, ce lo lascia intendere quando alla radio fra le
tante notizie passa anche quella dell’ennesimo naufragio. La notizia non crea
più preoccupazione, tristezza, sconforto. È una delle tante e così viene
sentita ma non ascoltata.
La
pellicola si compone di due fili narrativi senza una vera e propria trama, il
regista riprende “semplicemente” quel che succede. Non ci sono artifici nel
montaggio, la fotografia tende ad essere più naturale possibile, l’obiettivo si
sporca per comunicarci poi una situazione di disagio. Sia per le gravi,
talvolta gravissime, condizioni di alcuni migranti, sia per la difficoltà
stessa nell’assistere ad una simile situazione, come noi spettatori fatichiamo
a vedere oltre lo sporco della telecamera.
Ci
sono in compenso dei personaggi ricorrenti, principalmente il bambino e la sua
famiglia, il medico che si occupa di visitare i nuovi arrivati che infrangerà
la quarta parete per darci la più diretta testimonianza possibile di chi se ne
deve occupare per professione, lo speaker alla radio che passa dischi e la
coppia di pensionati.
Si
mostra quindi come sull’isola e tutt’intorno ad essa, le due cose convivino
praticamente senza incontrarsi, almeno in scena; si mostra la vita quotidiana
di un pescatore, di un preadolescente che va a scuola, di una nonna che ricorda
il passato e ci chiarisce cos’è il “fuocoammare”, le luci che durante la Guerra
tingevano le acque di fuoco liquido. Dall’altra parte abbiamo invece i migranti
che scena dopo scena, intervallo dopo intervallo, ripercorrono tutto l’iter del
loro arrivo. Si inizia dalla segnalazione, si passa alla ricognizione,
l’individuazione, salvataggio, trasporto su un bus chiamato casualmente “misericordia”, i controlli, i centri
d’accoglienza. Ci viene anche raccontato ciò che è successo prima attraverso il
gospel; quello che a noi pare inferno è per loro un paradiso, alla luce di quel
che hanno subito nel loro lungo cammino dall’Eritrea, dalla Nigeria, passando
per la Libia, fino a quelle imbarcazioni dove ci si divide per classi. E quando
va bene, si sta sul ponte in balia delle intemperie, quando va male si sta tra
il carburante a morire nella stiva.
Tra
cadaveri, donne incinte, ustioni, scabbia e controlli di routine, dove le
immagini non si spingono, sono le parole del medico a darci la drammaticità che
non si carica di finzione, ma ci riporta quanto mai alla realtà: “è dovere di ogni uomo che sia uomo dare una mano a
queste persone; gli amici mi dicono che ci sono abituato, ma come si fa ad
abituarsi?”. Con la voce tremolante infrange la quarta parete e parla
quasi direttamente al pubblico.
Il
film si prende il suo tempo, va a passo d’uomo perché racconta la vita degli
uomini, delle molte donne che arrivano e con rispetto vogliono solo essere
salvate. Colpisce per questo la scena in cui la donna durante i controlli,
andando contro la sua morale, la sua religione e il suo costume, inizia a
scostare il velo dai capelli; e allo stesso modo colpisce come la guardia la
fermi per non metterla a disagio, per non toglierle quello che la rende umana.
Se
Tornatore nelle sue opere ci racconta una Sicilia romantica e bellissima,
mantenendo quanta più realtà possibile, Rosi punta più su questo ultimo
fattore, la realtà, e crea quello che è praticamente un mockumentary fatto da
gente comune, nessun attore professionista, di riprese dal vero senza set, di
luce naturale, di paesaggi non costruiti.
Il
messaggio del regista sta tutto nella metafora dell’occhio pigro del ragazzino:
l’Italia, L’Europa, il mondo, ha visto succedere queste cose per così tanto
tempo che quasi non vi presta più la giusta attenzione. Allora bisogna
riabituarsi a vedere gli altri come persone, a vedere delle risorse in quelli
che taluni ci vogliono far credere essere problemi ed aiutare, muoversi, non
costruire muri, non aiutarli a casa loro, accoglierli proprio perché non ne
hanno più una, perché questa è casa loro quanto lo è, casualmente, per noi.
Per
finire, un ringraziamento va sempre alle forze dell’ordine, ai medici,
all’esercito, alle persone che giorno dopo giorno si occupano umanamente di un
compito che spetta all’umanità intera.
Indie #20 | Rassegna di Cinema Indipendente | Capitolo III - Le Recensiony
Reviewed by Antonio Emmanuello
on
15:00:00
Rating:
Nessun commento